Missione umanitaria in Ucraina

Una lacrima consapevole di sé

Come avevamo comunicato nella scorsa newsletter di maggio, la seconda missione “SOS Ucraina” è partita il 2 giugno ed è terminata con il ritorno in Italia dei volontari il 5 giugno. Nuovamente hanno partecipato insieme a Sulla Strada, l’Associazione Bambini nel Deserto, Ethics Expo e l’Associazione Colibrì, Istrid e il Centro Europeo Risorse Umane. Un convoglio importante, che ha trasportato dall’Italia alla Polonia decine di migliaia di euro di farmaci necessari ed espressamente richiesti da un ospedale nel territorio di Leopoli che sta resistendo all’invasione russa. Oltre ai farmaci Sulla Strada ha donato anche un’ambulanza (la prima e unica dell’ospedale), che Luca Persiani, il nostro affezionato e intraprendente volontario, ha guidato per 1300 km. Vogliamo farvi raccontare l’esperienza proprio da Luca, che è stato cuore e corpo di Sulla Strada e della missione in Ucraina.

“Siamo partiti in 18, tutti volontari, distribuiti in un’ambulanza e quattro furgoni. Abbiamo lavorato duramente per circa due mesi alla realizzazione della seconda missione, imparando dagli errori della prima. Il convoglio ha viaggiato per oltre 1300 km, partendo dal parcheggio di Mantova Nord e arrivando a Przemysl, in Polonia, al confine con l’Ucraina. Ogni veicolo, ambulanza compresa, è stato riempito di medicinali e prodotti medicali, richiesti da INTERSOS e da un ospedale di Chervonograd, periferia di Leopoli. Non siamo usciti dall’Europa, non saremmo stati al sicuro. Abbiamo dunque organizzato l’incontro con la delegazione nel parcheggio di un albergo che fosse vicino al confine con l’Ucraina, in modo da avere spazio per le manovre dei furgoni, un luogo dove avere anche uno scambio umano, dove il sole potesse illuminare i nostri occhi, in cui una lacrima potesse brillare.
Ho guidato l’ambulanza di Sulla Strada per tutto il tragitto, l’ho custodita, caricata, pulita e rispettata. Ogni centimetro di asfalto percorso riduceva la distanza dal luogo della consegna e ogni istante ne accorciava il tempo. E in questo tempo ho vissuto un altro viaggio, nello spazio dell’immaginazione, tra il momento della consegna, le espressioni dei volti e gli abbracci sinceri. Ho provato a immaginare i loro volti, i loro occhi, i loro vestiti, i movimenti. Poi mi sono focalizzato su come mi sarei dovuto comportare per far sentire loro la vicinanza dell’Associazione Sulla Strada e la mia personale. A cosa dire, come muovermi, se salutare da lontano, dare la mano o lasciarmi andare in un caloroso abbraccio. Ho portato con me un foglio in cui ho scritto delle parole in ucraino che mi aiutassero nella comunicazione.
Sapevo dentro di me di non poter essere pronto, perché per me la guerra è soltanto una parola che ammala le anime di un male incurabile e nel peggiore dei casi genera un effetto domino. Ma è, e resta una parola. Per gli ucraini è la quotidianità, un mostro che gli abita in casa e che possono solo subire riponendo la fiducia nel tempo e sperando che le preghiere servano davvero.
Il gruppo di volontari è unito e a ogni tappa la maglia si restringe. Guidiamo costantemente fermandoci solo per brevi tappe necessarie. L’obiettivo è uno solo ed è nel cuore di tutti: effettuare la consegna rispettando i tempi concordati.
Quando il navigatore satellitare segnala finalmente il nostro arrivo, scorgiamo il parcheggio dell’albergo, tre furgoni grandi e una decina di volti spaesati, increduli della nostra presenza. Scendiamo dai veicoli e ci avviciniamo sorridenti, lentamente, ci identifichiamo e porgiamo loro le mani in segno di amicizia. L’interminabile istante di imbarazzo viene spezzato dalla nostra volontaria ucraina che con due parole veicola perfettamente ciò che da noi trapela solo nella mimica. Ci mettiamo in cerchio e alcuni dei volontari ucraini si abbandonano al proprio dolore, qualcuno non parla, qualcuno piange lacrime nere, altri per non pensare cominciano a scaricare i furgoni con una frenesia che supera quella necessaria. Il dottore ucraino prende la parola, l’interprete traduce e dalle sue parole non emerge solo la gratitudine per la donazione ma anche nei confronti della nostra presenza fisica che risulta quasi essere più importante. Il dottore ci rivela che è la prima volta che ricevono donazioni di persona e mentre la lacrima di sofferenza solca il suo volto, si fa strada un sorriso sincero che cambia l’umore di noi tutti.
Un sorriso è uguale a un sorriso, questo lo sapevo già ed è per questo che provo empatia. È come se il dottore provasse quelle emozioni anche dentro il mio corpo, e l’ovvietà del “siamo tutti uguali” si rinnova mantenendo la stessa forma ma acquisendo una struttura più solida. Non riesco a vedere dai suoi occhi ma improvvisamente siamo connessi. Del resto la guerra si consuma ai confini dell’Europa e noi, qui, ora, abbiamo rotto quei confini e per un istante vengo travolto dall’altrui sofferenza, da oggi anche un po’ mia.
Sbatto le palpebre e mi guardo intorno, non vi è ora più distinzione tra “noi” e “loro”, c’è solo un “noi” più grande. E come la distanza comunicativa è stata colmata della traduzione dell’interprete, così la distanza fisica viene soffocata dagli abbracci, e le persone cominciano a parlare la propria lingua riuscendo a capire l’altro. Una signora ucraina mi dice una frase lunghissima nella sua lingua e quando finisce la guardo negli occhi e le dico “credo di aver capito”. Ci abbracciamo.
In quel momento realizzo che davanti ai sentimenti sinceri non c’è discriminazione, che il dialogo è possibile anche lì dove la lingua sembra un vincolo, che i confini li costruiamo noi e sempre noi possiamo distruggerli. Ora piango anche io, una lacrima che è consapevole di essere salata come tutte le altre.”

Guarda il video della missione!

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