diario dalle corsie
Soprattutto in tempi difficili, come il momento che stiamo attraversando, crediamo sia importante condividere pensieri, esperienze, riflessioni, per alleggerire il cuore e, al tempo stesso, arricchire quello degli altri. Per questo motivo abbiamo chiesto ai nostri volontari, medici e infermieri che in tutta Italia lavorano nell’emergenza Coronavirus, di inviarci loro contributi.
Questa è una raccolta di pensieri di Willy (Guglielmo G).
Liberi frammenti di pensieri in un’epoca non libera.
In questi tempi strani tutto assume una dimensione diversa, tutto quello che normalmente facciamo con i pazienti è filtrato, il contatto fisico, il contatto visivo, le parole. Abbiamo tre paia di guanti che ci coprono le mani, le mascherine che ci coprono la bocca, molti pazienti sono ventilati con caschi a pressione controllata estremamente rumorosi che li rendono praticamente sordi e alienati in un mondo in cui già hanno difficoltà a capire tre quarti delle cose che succedono. E infatti si agitano, il paziente ventilato con il casco è per definizione a rischio di agitazione, ancor di più non potendo sentire bene quello che gli spieghi né leggere il labiale, e agitandosi respira peggio per cui devi spesso ricorrere a importanti sedazioni farmacologiche. E all’interno di questi caschi vedi le persone rifiorire, riprendendo un colore e una respirazione quasi normali, o appassire come fiori in teche di cristallo, discendendo precipitosamente lungo un baratro che sembra senza fine.
La solitudine è un’altra delle grandi croci di una pandemia: chi sta male, sta male da solo; chi muore, muore da solo. Per la famiglia non è possibile nemmeno vederlo un’ultima volta, accompagnarlo nell’ultimo viaggio né onorarlo con una funzione funebre, religiosa o meno che sia. Non poter vedere né piangere i propri cari crea un dolore lacerante in chi resta, che chissà se il tempo potrà curare. Non poter aver il supporto dei propri cari in una battaglia così feroce genera in chi è ricoverato una paura viscerale, primordiale, come quella che l’uomo primitivo aveva per il buio.

È per questo che vedere la prima videochiamata di un paziente con la propria famiglia, dopo giorni o settimane di lotta estenuante per respirare, smuove qualcosa anche nei più saldi e impassibili di noi.

Altro elemento ricorrente di una pandemia è vedere intere famiglie ricoverate. Alla domanda “i suoi familiari hanno avuto sintomi?” la risposta spesso è: “si, anche mia moglie e mio figlio sono qui ricoverati”. In questi casi sai che probabilmente non tutti i membri del nucleo familiare usciranno dall’ospedale. E pensi a un ragazzo che è stato trovato in lacrime dall’infermiera perché ha ricevuto una telefonata dall’altro reparto in cui gli comunicavano che il padre era morto, senza sapere che anche lui fosse ricoverato; o ad una giovane donna incinta la cui malattia ha avuto un decorso particolarmente benigno ma che dovrà crescere sua figlia da sola in quanto il marito è morto in rianimazione mentre lei era ricoverata; o a un marito, sposato con la moglie da quaranta anni e ricoverati nello stesso reparto, che ha avuto la fortuna (o sfortuna) di poter stare con lei nel momento in cui stava peggiorando fino all’ultimo saluto.
Oppure viene in mente un ragazzo di 35 anni con la sindrome di Down, salvato grazie a una cura sperimentale, il cui fratello ha dovuto custodire per tutta la durata del ricovero il segreto della morte del padre così da poterglielo comunicare di persona con il calore di un abbraccio anziché attraverso lo schermo di un tablet.